venerdì 20 ottobre 2017

Io non mi chiamo Miriam, Majgull Axelsson

Miriam ha 85 anni, è un’ebrea reduce da Auschwitz e Ravensbrück che si è ricostruita una vita nella tranquilla Svezia. Grazie ai pacifici e tolleranti svedesi, Miriam ha fatto pace con il suo passato, ha avuto un matrimonio soddisfacente, ha una bella famiglia, una nipote che la ama e un nipotino vivacissimo. La comunità di Nässjö non potrà che essere d’accordo.
O forse no.
Forse questa elegante signora ottantacinquenne non si chiama Miriam; è stata sì ad Auschwitz e Ravensbrück ma non parla una parola di yiddish; ha dei numeri tatuati sul braccio ma non vi è alcuna traccia del triangolo giallo identificativo degli ebrei. È arrivata in Danimarca in stato d’incoscienza a bordo del “treno fantasma”; è sopravvissuta al tifo esantematico e si è ricostruita una vita nella tollerante comunità di Jönköping prima, e Nässjö poi, ma negli ultimi 70 anni non ha mai dormito sonni sereni.
Quest’elegante signora ottantacinquenne, rimasta sola al mondo all’età di quindici anni, nel corso della deportazione da Auschwitz a Ravensbrück ha rubato l’identità alla già defunta Miriam Goldberg, indossando i suoi abiti e la sua stella gialla; pensando ingenuamente che a Ravensbrück gli ebrei se la passassero meglio dei rom, si è procurata una ferita sul braccio per rendere meno identificabile il tatuaggio originario. Il furto d’identità non l’ha aiutata molto nel campo di concentramento, dove i nazisti odiano gli ebrei più dei rom; ma, nei civili paesi scandinavi dell’immediato dopoguerra, se anziché chiamarsi Miriam si fosse chiamata Malika, se avesse parlato romanés, se fosse stata una rom e non un’ebrea, pur mostrando la stessa gentilezza, la stessa intelligenza, la stessa rettitudine, non avrebbe mai potuto sposare un agiato dentista svedese, essere la madre di suo figlio, camminare a testa alta nella piccola cittadina di Nässjö.
Zingari. Si sa come sono fatti quelli…
Lo pensano gli ebrei di Auschwitz, lo pensano le “politiche” norvegesi, finite a Ravensbruch per l’opposizione al regime nazista, lo pensano gli svedesi di Jönköping che nel 1948 al grido di Fuori i tattare! Fuori i tattare!, scatenano una feroce caccia allo zingaro.
Io non mi chiamo Miriam ha il pregio di coniugare l’invenzione letteraria con la realtà, mettendo in luce episodi trascurati dai manuali perché ritenuti, forse, marginali rispetto alla grande Storia.
Non avevo mai letto della resistenza opposta dagli zingari ai sorveglianti ad Auschwitz nella notte del 16 maggio 1944, così come ignoravo la successiva repressione da parte delle SS, nonché i terribili esperimenti effettuati dal dottor Mengele sui bambini rom. Non mi ero mai interrogata su quale fosse stato il trattamento riservato ai rom, non solo nei campi di concentramento, ma anche dopo Auschwitz. Non mi era mai passato per la mente che l’accoglienza riservata ad un sopravvissuto ebreo fosse diversa da  quella destinata ad un sopravvissuto rom.
Majgull Axelsson, svedese, nata nel 1947, ha avuto il coraggio di affrontare un tema spinoso quale l’Olocausto, unendo la tragedia vissuta dai rom a quella vissuta dagli ebrei, e sfidando la nota polemica in base alla quale chi non ha conosciuto l’esperienza del lager non ha il diritto di raccontarla.
Non avrei scritto questo romanzo quindici anni fa. Come la maggior parte delle persone, a quell’epoca ritenevo che spettasse ai sopravvissuti raccontare. Oggi, però, quelli rimasti in vita sono pochi e ciò non può comportare che si smetta di scrivere di questo crimine conto l’umanità.
Quindi non concordo con Elie Wiesel.
Un romanzo potente che scatena una serie di domande a cui è difficile dare una risposta. Si può ricominciare a vivere tacendo sul passato? Si può vivere una vita nella menzogna?


Majgull Axelsson, Io non mi chiamo Miriam (Jag heter inte Miriam), traduzione dallo svedese di Laura Cangemi, Iperborea.

4 commenti:

  1. Romanzo potente che arriva dove i libri di storia scolastici non arrivano (e mai arriveranno ahimè).
    Romanzo necessario, come le domande che ne derivano. Le risposte invece, le risposte sono sospese: non è facile darle senza aver letto il libro e, soprattutto, senza farsi un profondo esame sociologico e moralmente corretto (il politically correct così inflazionato ultimamente, nemmeno mi sfiora). Buona domenica, cara amica!

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    1. Da ragazzina sono stata una studentessa diligente: forse troppo. Mi rendo conto che se avessi fatto più di testa mia in un periodo in cui avevo tempo e modo di poter leggere e approfondire alcuni argomenti (anzichè star lì a seguire i programmi ministeriali e terminare i miei sterili compitini), oggi avrei una diversa consapevolezza del mondo. E forse ricorderei pagine di storia che sono state assimilate senza ragionarci molto. Il giusto per portar a casa un buon voto.
      Non si possono addossare troppe responsabilità alla scuola, ai programmi ministeriali, alla didattica ma, alle volte, guardando i miei nipoti mi rattrista pensare alla superficialità con cui si studia la storia (e il lager, per un tredicenne, è quasi preistoria).

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  2. Trovo che , in esaurimento la generazione dei testimoni diretti, sia indispensabile che le generazioni successive si assumano l'onere di tramandare le storie e l'assurdità del male alle nuove generazioni. Potente mi è parso, in questo senso, "tutta la luce che non vediamo" di Doerr che andrebbe, a mio avviso, letto a scuola

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    1. Avevo già preso nota dopo aver letto il tuo post. Lo scambio di consigli tra lettori funziona sempre.

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