mercoledì 25 ottobre 2017

Partiture per un addio, Paolo Agrati

Io e la poesia abbiamo un rapporto altalenante.
Neanche con la morte vado troppo d’accordo. Con il suicidio, poi, non ci siam rivolti la parola per anni. Ho sempre spostato lo sguardo altrove ogni volta in cui una voce annunciava l’interruzione della metropolitana a causa di un incidente sopravvenuto.
«Ma che n’altro suicidio? Proprio quando stacco da lavoro io. C’avevo pure ‘na cena…».
«L’ennesimo imbecille che ha bisogno del colpo di scena finale!».
Battutine sceme per combattere il silenzio; umorismo da strapazzo per nascondere la paura, la disperazione, quella vocina che ti si insinua nella testa, immagini di litigi con il compagno, il mutuo da pagare, la pasticchina per combattere l’insonnia, quel senso di vuoto che tu forse non puoi comprendere anche se… Ci vuole più coraggio ad affrontare la corrente o a lasciarsi travolgere? Ad aprire il tubo del gas o ad entrare in una sala operatoria?


Paolo Agrati racchiude sprazzi di vita in pochi versi, partendo dal momento dell’addio. Nel silenzio della sera, ho ascoltato la sua voce con le musiche di Simone Pirovano in sottofondo e ho visto sfilare esistenze che un tempo avevano danzato, sorriso, accarezzato la testa bionda di un bimbo, baciato una donna elegante, fumato una cannetta tra amici. E poi hanno voltato le spalle, salutandomi di sfuggita. Frammenti di vita prima del nulla.
Non ho ancora fatto pace né con la morte né con il suicidio, ma sto cercando di non abbassar più lo sguardo.


Paolo Agrati, Partiture per un addio, Edicola Ediciones.

Qui puoi ascoltare la voce di Paolo Agrati mentre recita le sue poesie con le musiche di Simone Pirovano in sottofondo.   

venerdì 20 ottobre 2017

Io non mi chiamo Miriam, Majgull Axelsson

Miriam ha 85 anni, è un’ebrea reduce da Auschwitz e Ravensbrück che si è ricostruita una vita nella tranquilla Svezia. Grazie ai pacifici e tolleranti svedesi, Miriam ha fatto pace con il suo passato, ha avuto un matrimonio soddisfacente, ha una bella famiglia, una nipote che la ama e un nipotino vivacissimo. La comunità di Nässjö non potrà che essere d’accordo.
O forse no.
Forse questa elegante signora ottantacinquenne non si chiama Miriam; è stata sì ad Auschwitz e Ravensbrück ma non parla una parola di yiddish; ha dei numeri tatuati sul braccio ma non vi è alcuna traccia del triangolo giallo identificativo degli ebrei. È arrivata in Danimarca in stato d’incoscienza a bordo del “treno fantasma”; è sopravvissuta al tifo esantematico e si è ricostruita una vita nella tollerante comunità di Jönköping prima, e Nässjö poi, ma negli ultimi 70 anni non ha mai dormito sonni sereni.
Quest’elegante signora ottantacinquenne, rimasta sola al mondo all’età di quindici anni, nel corso della deportazione da Auschwitz a Ravensbrück ha rubato l’identità alla già defunta Miriam Goldberg, indossando i suoi abiti e la sua stella gialla; pensando ingenuamente che a Ravensbrück gli ebrei se la passassero meglio dei rom, si è procurata una ferita sul braccio per rendere meno identificabile il tatuaggio originario. Il furto d’identità non l’ha aiutata molto nel campo di concentramento, dove i nazisti odiano gli ebrei più dei rom; ma, nei civili paesi scandinavi dell’immediato dopoguerra, se anziché chiamarsi Miriam si fosse chiamata Malika, se avesse parlato romanés, se fosse stata una rom e non un’ebrea, pur mostrando la stessa gentilezza, la stessa intelligenza, la stessa rettitudine, non avrebbe mai potuto sposare un agiato dentista svedese, essere la madre di suo figlio, camminare a testa alta nella piccola cittadina di Nässjö.
Zingari. Si sa come sono fatti quelli…
Lo pensano gli ebrei di Auschwitz, lo pensano le “politiche” norvegesi, finite a Ravensbruch per l’opposizione al regime nazista, lo pensano gli svedesi di Jönköping che nel 1948 al grido di Fuori i tattare! Fuori i tattare!, scatenano una feroce caccia allo zingaro.
Io non mi chiamo Miriam ha il pregio di coniugare l’invenzione letteraria con la realtà, mettendo in luce episodi trascurati dai manuali perché ritenuti, forse, marginali rispetto alla grande Storia.
Non avevo mai letto della resistenza opposta dagli zingari ai sorveglianti ad Auschwitz nella notte del 16 maggio 1944, così come ignoravo la successiva repressione da parte delle SS, nonché i terribili esperimenti effettuati dal dottor Mengele sui bambini rom. Non mi ero mai interrogata su quale fosse stato il trattamento riservato ai rom, non solo nei campi di concentramento, ma anche dopo Auschwitz. Non mi era mai passato per la mente che l’accoglienza riservata ad un sopravvissuto ebreo fosse diversa da  quella destinata ad un sopravvissuto rom.
Majgull Axelsson, svedese, nata nel 1947, ha avuto il coraggio di affrontare un tema spinoso quale l’Olocausto, unendo la tragedia vissuta dai rom a quella vissuta dagli ebrei, e sfidando la nota polemica in base alla quale chi non ha conosciuto l’esperienza del lager non ha il diritto di raccontarla.
Non avrei scritto questo romanzo quindici anni fa. Come la maggior parte delle persone, a quell’epoca ritenevo che spettasse ai sopravvissuti raccontare. Oggi, però, quelli rimasti in vita sono pochi e ciò non può comportare che si smetta di scrivere di questo crimine conto l’umanità.
Quindi non concordo con Elie Wiesel.
Un romanzo potente che scatena una serie di domande a cui è difficile dare una risposta. Si può ricominciare a vivere tacendo sul passato? Si può vivere una vita nella menzogna?


Majgull Axelsson, Io non mi chiamo Miriam (Jag heter inte Miriam), traduzione dallo svedese di Laura Cangemi, Iperborea.

martedì 17 ottobre 2017

Il venditore di passati, José Eduardo Agualusa

"Ritengo ciò che faccio una forma superiore di letteratura […] Anch'io creo intrecci, invento personaggi, ma invece di lasciarli chiusi in un libro, do loro vita, li getto nella realtà".
Felix Ventura termina la sua minestra di verdure mentre sfoglia attentamente il giornale; ritaglia con cura tutto ciò che un giorno potrebbe tornargli utile e archivia gli articoli insieme alla registrazione dell’ultimo telegiornale ascoltato. Felix Ventura sostiene di fare il genealogista ma più che ricostruire il passato lo contrabbanda. Fabbrica sogni, inventa genealogie, costruisce un passato migliore per chi fugge da una realtà scomoda. Bussano alla sua porta politici, giornalisti, professori, fotoreporter, ma in pochi hanno il privilegio di poter ascoltare i suoi pensieri. 
Le donne guardano con imbarazzo la sua pelle così delicata, tutte tranne Ângela Lúcia: «È la prima volta che bacio un albino». Ma Ângela Lúcia è una donna fuori dal comune: è pura luce; riesce a mantenere viva una conversazione senza prendervi quasi mai parte.
Felix Ventura ha un solo vero amico, Eulálio, un geco tigrato, ottimo ascoltatore, dalla risata quasi umana, con una pessima pelle e l’avversione per il sole, neanche fosse albino. Eulálio registra i racconti di Felix, va a trovarlo nei sogni, cammina sui suoi libri, condivide l’amore per le parole arcaiche, quelle destinate all’oblio. Ogni tanto, nelle loro conversazioni - vere o sognate, chissà! -  compare l’Angola, però nessuno dei due prende Luanda troppo sul serio. La guerra civile è alle spalle, ma sono successe così tante cose in questo paese da far ammattire le persone.
Luanda è piena di persone che sembrano molto lucide e all’improvviso si mettono a parlare lingue impossibili, o a piangere senza apparente motivo, o a ridere, o imprecare. […] Certi pensano di essere morti. Altri sono morti e nessuno ha ancora trovato il coraggio di comunicarglielo. […] È una fiera di pazzi questa città; ci sono in giro, per quelle strade in rovina, in tutte quelle bidonville, patologie che non sono state neanche catalogate.

José Eduardo Agualusa, Il venditore di passati (O vendedor de passados), traduzione dal portoghese (Angola) di Giorgio De Marchis, la Nuova frontiera, 2008.
Qui un bel reportage per uscire dai sogni di Felix Ventura e immergersi nell'Angola dei nostri giorni.

José Eduardo Agualusa è scrittore, giornalista e grande affabulatore. L’ho ascoltato al Festivaletteratura di Mantova, a settembre scorso, in occasione della presentazione del suo ultimo romanzo, Teoria generale dell’oblio (tradotto da Romana Petri, edito da Neri Pozza). 
L’autore chiacchierava con Romana Petri dell’Angola, del colonialismo, della guerra civile, del potere della scrittura. Quando gli è stato chiesto come nascono i suoi romanzi ha sorriso:  
"Quando inizio un romanzo ho solo un’idea della storia. Scrivo per sapere come andrà a finire. Sono uno che sogna molto". 
E Il venditore di passati ne è una dimostrazione.