lunedì 31 dicembre 2012

2012



È stato un anno faticoso.
Sì, lo so, lo diciamo spesso il 31 dicembre. Ma questo 2012 faticoso lo è stato davvero: fisicamente, psicologicamente, emotivamente. Niente di grave, ché so di essere una ragazza fortunata. Poi, però, ognuno guarda nel suo piccolo mondo e se vede cose che piacciono poco, se non si riesce a cambiare la quotidianità, se si ha la sensazione di camminare costantemente attraverso un percorso ad ostacoli, va a finire che la spossatezza prenda il sopravvento e ci si dimentichi di essere una ragazza fortunata.
Anche quest’anno ho scritto e letto meno di quanto avrei voluto. Mentre ripercorrevo l’elenco dei titoli letti ho pensato a quanto sia importante incontrare un libro specifico in un determinato momento della propria vita. Alcuni libri diventano speciali solo perché arrivano al momento giusto; ci dicono cose che avevamo bisogno di sentire, danno risposte a domande inespresse, aprono una finestra su una realtà sconosciuta; ci fanno riflettere, sorridere, ci portano altrove quando abbiamo bisogno di fuggire; ci fanno rifugiare in altre esistenze quando la nostra ci sta un po’ stretta.
La cinquina del mio 2012 è quasi tutta al femminile: Suite francese, Possessione, Troppa felicità, Le anime morte, 84, Charing Cross Road
Ma i libri che hanno lasciato il segno sono stati quelli perfettamente incastrati nello stato d’animo del momento.
Gennaio: è stato il mese in cui più ho sentito la mancanza della corsa e il desiderio di muovermi. Quando non cammino ho la sensazione di non riuscire a pensare, e quel ginocchio dolorante frenava il pensiero. Il mondo a piedi mi ha fatto sgranchire le gambe virtualmente tutte le volte in cui son rimasta in casa e, successivamente, mi ha fatto apprezzare le lunghe camminate che per qualche tempo hanno sostituito la corsa.  
Febbraio: neve, gelo, cioccolata calda e la Byatt di Possessione. Avrei voluto che nevicasse altri quindici giorni. Non credo che il mio capo sarebbe stato altrettanto entusiasta.
Marzo: l’Italia del Gattopardo che poi non è tanto diversa da quella di adesso.
Aprile: nostalgia di Tabucchi, voglia di partire, scoprire, cercarsi. Irrequietezza.  Notturnoindiano.
Maggio: il viaggio in treno alla volta del Salone del libro di Torino con un grandissimo Dürrenmatt. Il Freccia Rossa portò un ritardo esagerato ma non mi dispiacque.
Giugno: stanchezza e il difficile approccio con Thomas Bernhard de Il soccombente. Ho bisogno di musica ma continuo a tergiversare.
Luglio: le ferie sembrano non arrivare mai. Olive Kitteridge in lingua originale mi fa capire che di polvere sul mio inglese se ne è accumulata parecchio. Poi ci sono il nuoto, la corsa e la voglia di montagna.
Agosto: il trekking, gli scarponi, la Valle d’Aosta, nuovi meravigliosi amici, il silenzio, i progetti per una vita diversa, l’entusiasmo. La mente galoppa, non riesce a soffermarsi a lungo su una pagina. Mi aiuta Fred Vargas e qualche giallo. I giorni più intensi dell’anno. Indimenticabili.
Settembre: i buoni propositi naufragano. Riscopro il piacere della biblioteca e di una domenica su una spiaggia silenziosa in compagnia della Munro. Troppa felicità.
Ottobre: tutti hanno festeggiato il centenario della nascita di Elsa Morante. Io l’ho scoperta in autunno con L’isola di Arturo e Aracoeli. Non è innamoramento ma è nata una curiosa amicizia. Credo che continueremo a frequentarci.
Novembre: è sempre il mese più difficile. Troppo buio per una che va ad energia solare. Fortuna che ho tra le mani Gogol. Le anime morte è il libro più spassoso letto nel 2012. Be’, ci sarebbe pure la Zia Mame, ma quello è trastullo puro. L’ironia di Gogol, invece, è pungente: si sorride e si medita.

Dicembre: l’ennesimo trasloco. Dell’ufficio che, se possibile, è cosa peggiore del trasloco di casa. Archivi di cui vorresti fare un bel falò (ma non puoi), telefoni impazziti, documenti che giocano a nascondino tra un server e l’altro. La ricerca di un nuovo equilibrio. Il ritorno dell’insonnia, sopportabile se hai 84,Charing Cross Road sul comodino. La notte scivola via e tu resti come ipnotizzata; avvolta nel tuo pigiama di pile ti convinci che un altro stile di vita sia possibile. E il giorno successivo vai dal parrucchiere e ne esci con un taglio cortocorto, che per noi donne è come dire: «Volto pagina. E sta volta faccio sul serio». Che poi sia la volta giusta o la scelta giusta lo si capirà solo nei prossimi mesi.

 

Auguro a voi, e a me, cari amici, un anno più sereno; un anno in cui si riesca a trovare quotidianamente un po’ di tempo per noi stessi, per ascoltare la nostra voce interiore, per leggere, riflettere, capire chi siamo e quali sono le nostre priorità. Le nostre, non quelle che vogliono farci credere essere esigenze primarie ma, poi, altro non sono che accessori superflui.

 

Felice 2013 a tutti.

 

martedì 4 dicembre 2012

Dell’esser donna.



«E di sesso femminile non vorreste nulla?»
«No, grazie».
«Io ve ne darei a buon mercato. Per la conoscenza che abbiamo, un rublettino a pezzo».
«No, di sesso femminile non ne ho bisogno».
«Ah, se non ne avete bisogno, allora è inutile parlarne. I gusti son gusti: a chi piace il prete, e a chi la moglie del prete, dice il proverbio».
[… ] e questo che razza di contadino sarebbe: Elizaveta Vorobej? Pfu, per tutti i diavoli: una donna! Com’è venuta a sbatacchiare qua? Sobakevic farabutto, anche qui ha voluto truffare!
Cicikov aveva ragione: si trattava veramente di una donna! In che modo fosse scivolata là dentro, è un mistero: ma era stata iscritta così regolarmente, che a una certa distanza poteva venir scambiata per un contadino…  

Nikolaj Vasil’evic Gogol’, Le anime morte, traduzione di Agostino Villa, Einaudi.

Era la Russia dell’Ottocento descritta da uno straordinario Gogol’ (traduzione toscana spassosissima di Agostino Villa) e l’anima di una donna, diciamocelo, non valeva granché neppure da morta. La forza lavoro era del sesso forte; quello debole, come tale, non aveva valore. Una donna non poteva esser considerata un contadino. Ma erano altri tempi ed altri luoghi.
Non appartengo al gruppo delle femministe, né sono tra quelle che reclamano a gran voce l’introduzione in questo paese delle quote rosa che, anzi, mi sembrano sottolineare inutilmente una differenza di genere e non mi sembrano premiare il merito, quando c’è. Non ho mai avuto la sensazione che mi fosse precluso qualcosa, in quanto donna, né che fossi incasellata in qualche ruolo predefinito. Vabbè, ci sarebbero le riflessioni materne sui compiti della donna in casa, sull’importanza d’esser e d’apparir femmina e non maschiaccio. Insomma, niente di rilevante.
Sono stata sempre circondata da amici maschi; mi alleno con dei ragazzi, non ho mai avuto problemi di lavoro solo perchè donna. Mai, prima dell’ultimo periodo.
Da qualche tempo lavoro nel settore dell’autotrasporto merci, settore ancora considerato maschile sebbene molte aziende siano ben amministrate da donne e sebbene si vedano in giro conducenti donne spavaldamente alla guida di un autotreno. Questo lavoro è arrivato per caso, cercavo altro ma avevo bisogno di un introito mensile. Non è il lavoro della mia vita ma mi permette di sopravvivere e, non essendo mai stata troppo choosy, l’ho accettato e continuo a svolgerlo. Interagisco con tipi bizzarri, assisto a siparietti comici e mi scontro con soggetti che credono di essere il diretto successore di Dio in terra. Ce n’è uno, in particolare, che pensa che, per il solo fatto d’essere maschio, di avere una trentina d’anni d’esperienza e di far parte della Polizia di Stato, gli si debba stendere il tappeto rosso ogni volta che lo si incontra e chiamarlo Sua Eccellenza con tanto d’inchino reverenziale. Se poi, infelicemente, sei costretta a collaborare con lui, a trascorrere con lui un paio di giorni al mese, a dover sentire ogni volta la storia che “in questa società non ci son più valori; il ruolo della donna s’è snaturato. Ma da quando in qua sono gli uomini a prendere l’aspettativa per motivi di famiglia? Le donne hanno un compito specifico e quello devono svolgere. A casa. Nelle imprese, mah, fin quando si sta in segreteria o, al massimo, per qualcuna più brava, in amministrazione… Ma per il resto… L’Arma, l’Esercito… queste inutili aperture al sesso femminile che per struttura fisica e, diciamocelo, anche per idee, comportamento, atteggiamenti... Son cose che le donne non possono fare. Non c’è tempra, né fisica né mentale.  Prendi una donna a fare un inseguimento…” Se tutto ciò, dicevo, si ripete periodicamente, finisce che diventi femminista.
Marc Chagall, Le anime morte di Gogol', Apparizione del poliziotto
Ecco, Eccellenza, prendiamola una donna a fare un inseguimento. Mai esempio, con me, fu meno appropriato. Facciamo che iniziamo a correre noi due, Lei con il suo passo flemmatico ed io con i miei 4 minuti a chilometro per dieci chilometri. Vediamo chi arriva prima. 
Oppure facciamo che la lascio in una stanza con un imprenditore del settore dei trasporti, Lei con la sua misera conoscenza del codice della strada e la mia collega, con vent’anni d’esperienza, tutte le abilitazioni possibili, consulente, formatrice, presente alle riunioni fino a tarda sera, pronta a fare formazione il sabato, la domenica e ogni volta in cui ce n’è bisogno. Vediamo chi è più preparato e chi sa dare tutte le risposte del caso all’imprenditore in questione tra Lei, presuntuoso maschio, o la collega, umile e instancabile femmina. E già che ci siamo, mi spieghi pure perché io, povera donnicciola, posso lavorare anche sei giorni a settimana, mentre il mio capo, superbo maschio, non può venire in ufficio quando piove perché con “questo tempo uggioso non è il caso di uscire”.
Poi, per carità, non son mica tutte così le persone; però sa, Eccellenza, siccome non son tutte così, non sarebbe il caso di generalizzare; Egregio, se mostrasse un briciolo d’intelligenza in più, eviterebbe di mettere in cattiva luce il genere maschile. Ché gli uomini, sa, non sono mica tutti così ottusi.   

giovedì 29 novembre 2012

La sensazione che la vita dovesse ancora arrivare


“Lasciava tante volte che le cose che non aveva le facessero un male così grande da scordarsi il resto, quello che di bello e intenso aveva la sua vita. E non se lo perdonava, ché sapeva che bisognava invece essere felici per quello che si ha, e il contrario è offesa per le persone che davvero stanno male”.    
Paola Soriga, Dove finisce Roma – Einaudi Stile Libero.

Io è da un po’ di giorni che mi sento così. Solo che Paola Soriga lo sa dire meglio di me.
Poi dice pure:
“Aveva in fondo in fondo però anche sempre una fiducia, nelle cose che poi sarebbero arrivate”.
In fondo in fondo ce l’ho pur’io quella fiducia, solo che ho paura che se non faccio nulla quelle cose non arrivano. E mi riprende quello straniamento con il corpo qui e la testa un po’ nel passato un po’ nel domani.

“Certi giorni li passava interi ad aspettare, la sensazione che la vita dovesse ancora arrivare”.

giovedì 25 ottobre 2012

Così è la vita



Da qualche tempo mi capita di pensare alla morte. Forse perché vedo i miei nonni sempre più acciaccati e fragili (sebbene meravigliosamente lucidi), forse perché le telefonate con mia mamma prevedono spesso un «Sono stata al funerale di…» alternato da un «Sai chi è morto?». La morte è parte della vita; indubbiamente. Ma se penso alle persone che più amo, quest’approccio filosofico va a farsi benedire.   

Le cose migliori che mi sono successe negli ultimi tre anni sono state a un funerale”, dice Concita De Gregorio nel suo ultimo libro di cui ho sentito parlare dappertutto. Ne ho sentito parlare per radio, in televisione, al Salone del libro. Ne ho sentito parlare così tanto da pensare d’averlo letto prima ancora di prenderlo tra le mani.
Non è un libro che ti cambia la vita; non ti cambia neppure l’idea della morte. Ogni tanto ti strappa un sorriso, ti fa appuntare un titolo di un libro o di un film. È un po’ come fare quattro chiacchiere con un’amica, scambiandosi qualche riflessione sulla fugacità della vita, sull’inesorabilità del tempo che scorre e la vecchiaia che spaventa. Niente di drammatico però; osservazioni leggere che accompagnano un tè e qualche pasticcino.
Mentre leggevo, ho pensato al piacere che provo passeggiando nei cimiteri. Una di quelle cose che evito di raccontare in giro: c’è sempre qualcuno che mi guarda come fossi un’invasata.
Da piccola mi infastidiva la visita rituale nei primi giorni di novembre. Tutta quella gente, quel vociare sconclusionato, quel miscuglio di fiori, quei sospiri dovuti davanti alle tombe. Nella mia testa, il cimitero era un luogo di pace, un posto in cui poter passeggiare, riflettere, trovare delle risposte; non un luogo da frequentare solo in determinate occasioni, un posto temuto e di struggimento. È stato un sollievo liberarsi dell’appuntamento del 2 novembre e restituire al cimitero il suo giusto valore. Che poi, a quanto pare, non sono la sola a pensarla così. 

Da bambina, quando andavamo in viaggio, passavamo sempre dai cimiteri del posto, fossero quello di Praga o del paesino di campagna in Provenza. «Dai cimiteri si capisce tutto di un popolo», diceva [il padre di Concita De Gregorio]. Si sedeva sulle panchine a guardare le donne che portavano acqua ai fiori e pulivano le tombe camminando lungo misteriose rotte già segnate. Quasi sempre, quando la lingua lo consentiva, faceva due parole con loro. Poi passeggiavamo nei viali a leggere i nomi sulle lapidi, le frasi, a ricostruire le genealogie delle famiglie. Neri cimiteri si passeggia e si legge insieme, difatti, e quasi sempre si ricorda qualcosa di dimenticato, si trova quel che non si pensava di cercare. I necrologi sono scritti sulla pietra anche quando non c’è scritto niente. Dipende dal coloro e dalla dimensione della lapide, dallo stile scelto per incidere il nome, dalle date.